Siamo in attesa all’entrata del campo. Mentre guardo la foto dei bambini deportati (quanti anni avranno avuto: dieci? dodici?), la figlia di Theodore (che ne ha invece tre) sbuca sorridendo da dietro il cartellone. Vuole giocare con me: io per la sorpresa sorrido, ma sotto gli occhiali da sole per poco non scoppio a piangere.
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Cammino nei corridoi oscuri delle baracche come si cammina tra le pagine di un libro usato, cercando di accomodarmi nell’ingenua certezza – istintiva autodifesa – che tutto ciò sia irripetibile. E invece nel ripostiglio della mia coscienza so che tutto questo può riemergere altrove – domani, oggi stesso, adesso. Non me ne capacito: come può una persona portare in sé il germe di tutto ciò? Potrà mai esserci una nuova Auschwitz?
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Per tutta la visita una voce interiore cerca di convincermi che non sia vero ciò che vedo. Di sfuggita vedo il mio volto terribilmente occidentale riflesso in un vetro – quel vetro dietro il quale sono ammassati i capelli delle donne uccise con il cianuro nelle camere a gas; mi vergogno allora, scoprendomi alla ricerca metodica dell’artificio museale, della finzione storica. In me, una sorta di sospettoso proto-revisionista tenta di smontare questa narrazione, con l’obiettivo ultimo di scongiurare questo intimo senso di vergogna.
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Per i corridoi cammino a testa bassa, per non incrociare lo sguardo di chi sopraggiunge nell’altra direzione, come se fossimo tutti colpevoli, nonostante tutto – nonostante tutto.
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Ho pensato tutto il tempo a come avrei reagito se fossi stato deportato nel lager, a come mi sarei attaccato con tutto me stesso alla vita. Quello che più mi spaventa, però, non è tanto la certezza di parlare a vanvera, senza alcuna cognizione di causa, ma piuttosto il fatto che ad un certo momento avrei potuto smettere di voler vivere, di voler resistere – smettere di attaccarmi alla nuda vita, alla sopravvivenza selvaggia ed essenziale dell’animale che è in me.
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La disumanizzazione ultima non è lo sfruttamento dell’uomo trattato come mezzo – e non come fine. A tal riguardo, siamo tutti (quotidianamente) dei cattivi kantiani. La disumanizzazione ultima è l’annichilimento del volto umano, la rimozione chirurgica della pietà dagli occhi; la possibilità che la crudeltà non sia effrazione ma sistema; che il politicamente corretto, con la sua faccia da onesto cittadino, possa giustificare che Mengele avesse uno stipendio; che ogni soldato tedesco avesse una posizione ed un’attitudine da impiegato, una prospettiva di carriera, un letto dove riposare il corpo la notte dopo una giornata di lavoro – sì, di lavoro!
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In aeroporto, un signore tedesco seduto affianco a me intravede sul mio computer una foto dei deportati. Volta lo sguardo. Ed io non vorrei più dover nominare «Auschwitz», come se mi vergognassi di esserci stato.
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Ad un certo punto, di fronte alla sbarra per le impiccagioni, la chiara sensazione di intendere il suicidio di Primo Levi: non si può tornare alla normalità, alle tiepide case…
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Nella cosiddetta “baracca dei bambini” di Birkenau la guida ci parla, quasi con dolcezza, dei disegni fatti da chissà chi su quei muri. Io li trovo terribilmente crudeli – la spaventosa ironia dei nazisti. La figlia di Theodore, in braccio a sua madre, li osserva e sorride. Il sole splende freddo su Auschwitz.
27 febbraio 2016
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